lunedì, luglio 31, 2006
Beyond my living ways
DIGRESSIONI – Ripensandoci…
Scuola media. Appena squillata la campanella mi riprendo dal fantasticare. Pensieri lontani al rallentatore, che coinvolgono tappeti rossi, flash e statuette dorate. Qualcosa si sta delineando nella mia mente (e sta cambiando), ricordo che ancora non avevo un’idea ben chiara di dove queste considerazioni mi avrebbero portato. Ma non importa, non c’è più tempo per pensare, è arrivata la “sacra” ricreazione.
C’è stato un momento preciso in cui in me è scattato il fascino passionale della cinematografia, il primo passo per arrivare a quella scritta, alla critica. Attirato da una minuscola locandina sul giornale, andai con mio padre e mia cugina a vedere al cinema Ace Ventura.
Il 1994…è al termine della proiezione che è cominciato tutto.
Non è stato certo un capolavoro della storia del cinema a farmi accostare alla settima arte, anche se considero il film un capolavoro del suo genere, esplicitamente comico, e Jim Carrey un genio d’attore. E’ bastato poco a fare il salto, sintomo che in me la predisposizione era innata.
Cementificandosi questa a volte insana attrazione, mi ha portato ad esplorare tutti quegli italici recessi dove la parola cinema si annidava. Sale di doppiaggio, mostre di cinema, studi televisivi, set e conferenze stampa. Ad essa si affiancava il voler scrivere, l’impeto di scrivere e di saperne di più sul variegato argomento. Partivo dal prodotto confezionato per arrivare, attingendo dalla vastità della Rete, ad una fruizione del medium a 360°.
La crescita è cambiamento, perciò accorgendomi di essere uno spillo nell’oceano, ho ridimensionato le mie conoscenze, rivisto le mie basi e sono partito. Non di testa, ma negli USA.
Per cercare oltre, sfruttando le mie esperienze e trovare l’input che decidesse cosa fare del grande passo, nome ingannevole che indica la realtà…universitaria.
L’impatto sensoriale oltre ogni aspettativa, beyond my living ways, mi ha aperto gli occhi e quando sono rientrato sapevo.
Sapevo da dove volevo cominciare e che non sarebbe stato facile arrivare dove tutt’ora non intravedo nemmeno la meta. Però mi sono mosso dai blocchi e questo è stata una buona iniezione di fiducia. Ora spetta a me non lasciar cadere i remi.
Negli ultimi tempi ho rivisto il mio rapporto con il cinema, sempre più simbiotico e disinibito, al pari con le altre manifestazioni quotidiane. Approfondisco e sento il bisogno di essere informato e d’informare. La costante voglia di un confronto che porti a concreti progetti collettivi non fa che pormi sulla mia personale lunghissima strada verso l’appagamento, professionale e non solo.
Il Cinema non mi ha cambiato la vita, ha cambiato il modo in cui io la percepisco.
SimOne
mercoledì, luglio 26, 2006
CINEMA: Famiglie a confronto
Ritratto della più comune unità domestica nella fiction cinematografica
Bob ed Helen Parr sono due persone comuni, si amano, lavorano, mantengono i propri figli, insomma hanno una vita tranquillamente nella norma. Non fosse altro che sono i rispettivi alter-ego di Mr. Incredibile e sua moglie, Elasticgirl, una coppia di supereroi che combattono i malvagi.
La sintetica trama del film d’animazione della Pixar “Gli Incredibili, una normale famiglia di supereroi” rispecchia fedelmente quello che la prolifica industria cinematografica esibisce nelle pellicole degli ultimi anni. I veri eroi, al cinema, sono quelli che lottano contro la quotidianità della loro esistenza, ciascuna con i suoi problemi, e non sempre ne escono da vincitori. Il tema della famiglia è stato riproposto con insistenza dalla nuova ondata dei cartoons (vedi l’ “Indovina chi viene a cena” versione animata in Shrek 2), ma comprende anche numerosi film che pongono al centro della propria storia il rapporto familiare, tutto compreso ovviamente. A partire dalle cerimonia iniziale (“Matrimoni e Pregiudizi”) e dagli affetti consolidati (“Un bacio appassionato”), per arrivare ai dissapori di coppia (“Closer”) e ai tradimenti coniugali (“Confidenze troppo intime”), fino ad arrivare al più controverso dei rapporti, quello dell’eterno amore-odio tra genitori e figli (“Così fan tutti”). Questo solo per citare l’ultimo mese della stagione filmica appena terminata, in cui l’ondata del tema in questione ha toccato spesso e volentieri corde sensibili in molti spettatori. Frequentemente ci troviamo di fronte a film che riflettono altri valori, il cui tema principale risulta tutt’altro, ma anche in quei casi notiamo come le scelte più difficili che i protagonisti dovranno affrontare sottintendono l’unità domestica alla base, quell’oasi di quiete che è metafora della serenità interiore. Come non pensare ad uno dei più grandi successi cinematografici degli ultimi tempi, l’epico kolossal sulla vita del condottiero romano Massimo, divenuto gladiatore per vendicare la propria famiglia sterminata dall’imperatore. “Il Gladiatore” di Ridley Scott è solo un esempio che tuttavia evidenzia tale tendenza. Hollywood e le varie cinematografie europee hanno capito che il sacro tema della famiglia (anche quello caro a certi cultori della Famiglia firmata Corleone) non ha mai smesso di essere in voga ed è ancora il motore scoppiettante di una lunga serie di sceneggiature, molte delle quali ancora in fase di elaborazione. In Italia il ritratto della famiglia è ormai divenuto (a tratti forzatamente) il simbolo per eccellenza della cinematografia nazionale, che fa del dramma di vivere, più che della parentela come espressione d’amore, una filosofia ineluttabile. Perciò le opere di Muccino e di Moretti, come quelle di altri grandi autori, sono ciò che il pubblico gradisce a riguardo. Di conseguenza sono anche il riflesso della nostra società, quella società che mostra attraverso il grande schermo le difficoltà affrontate giornalmente da ogni famiglia, tutt’oggi vista come una superlativa coesione di persone qualunque.
SimOne
martedì, luglio 25, 2006
Largo alla diffusione della satira riflessiva
http://www.beppegrillo.it/
Per chi avesse voglia di conoscere di più il mondo, per chi volesse approfondire le tematiche + scottanti d'attualità, per chi non conosce ancora il potere che l'economia globale sta esercitando sulla politica del nostro Paese (ma non solo sul nostro...) ecco il link di cui avremmo tutti sempre bisogno.
Pubblicità gratuita per il sagace comico genovese, Beppe Grillo...
COLLEGHIAMOCI!
Dal suo ultimo spettacolo Incantesimi (2006):
"Di chi abbiamo bisogno noi? Su Moveon.org un milione di persone manda un milione di e-mail alla Casa Bianca e cambiano una legge. Non hai bisogno di nessuno!"
simulescion3
mercoledì, luglio 19, 2006
BASKET: Roma accoglie la NBA
L’Italia Campione del Mondo di calcio si dedica alla pallacanestro. “NBA Europe Live is coming soon” recita lo spot della National Basketball Association, che lancia il tour europeo delle squadre professionistiche, perché davvero l’NBA sta arrivando…a Roma. Il 6 ottobre la Lottomatica Roma giocherà contro i Phoenix Suns di coach Mike D’Antoni, semifinalisti, proprio come la Virtus nel campionato italiano, della ultima stagione del basket USA. Si è tenuta presso la Sala Pietro da Cortona dei Musei Capitolini in Campidoglio una conferenza stampa per illustrare al meglio non solo la “gara–evento” del 6 ottobre, ma anche tutte le attività che regaleranno alla città di Roma una settimana di pallacanestro a 360 gradi, a cominciare dal Villaggio Champion che sarà allestito alle Terme di Caracalla. In merito alla partita con i Phoenix, la Lottomatica Roma comunica che i primi 1.500 abbonati per la stagione 2006/07 avranno diritto di prelazione sull’acquisto dei relativi tagliandi (500 biglietti di Tribuna, Curva e Galleria). La gara vuol dire soprattutto pubblico ed è per accontentare le richieste di tutti coloro che amano la pallacanestro, che il Comitato Organizzatore ha portato a Roma l'NBA. I Suns svolgeranno parte della preparazione stagionale al Centro Sportivo della Ghirada a Treviso e poi giocheranno la partita-esibizione con la Virtus al Palaeur. Pochi giorni dopo lo storico pick di Bargnani arriva la presentazione dell'evento più atteso dagli appassionati, l’NBA Europe live in Italia. A fare gli onori di casa ci ha pensato il sindaco Walter Veltroni, presenti naturalmente il presidente della Federazione Italiana Pallacanestro Fausto Maifredi, il presidente della Lottomatica Virtus Roma Claudio Toti, il presidente del Comitato organizzatore “NBA a Roma” Livio Vanghetti, il senior vice president international della National Basket Association Andrew Messick e l’ex campione NBA Larry Wright, campione con i Bullets nel 1978 e successivamente trascinatore della Virtus Roma tricolore. Ad esordire è stato proprio il sindaco che ha rivelato le origini del progetto: “Tutto è nato da un pranzo con Toti e Livio Maglietti, volevamo donare nuovo slancio alla pallacanestro e ci siamo chiesti come far tornare una franchigia NBA nella capitale. Dopo una serie di contatti e di trattative sono andato personalmente a New York per incontrare il Commissioner David Stern, il nostro colloquio è stato produttivo e dopo tanto tempo possiamo finalmente presentare questo importante evento, la lega ha capito quanto di buono potevamo offrire.” Dopo la importanti parole del primo cittadino, ha preso la parola Messick, che ha ringraziato l’Italia a nome della NBA: ''Vi ringrazio a nome di David Stern, apprezzo il tempo che mi state dedicando nonostante i mondiali, Nba Europe Live è il tentativo più ambizioso della lega di promuovere il suo prodotto nel vecchio continente, 4 squadre sono pronte a disputare il training camp lontano dagli States. Questo testimonia l'importanza che l'Europa ha per il nostro movimento,in questo caso i Suns giocheranno contro una formazione Europea di alto rango, un team che parteciperà alla prossima Eurolega e che da anni si fa valere nel campionato italiano, senza contare che la straordinaria possibilità di giocare nella città eterna non capita spesso.” Infine, al termine delle consone statistiche, irrompendo la nostalgia, ha preso il microfono Larry Wright che ha ripercorso velocemente la sua carriera capitolina, lanciandosi con impeto nei suoi ricordi, insieme all’intervento di Valerio Bianchini, che oltre a tessere le lodi del comitato infatti, ha illustrato un interessante progetto per creare una lega di pallacanestro universitaria, un'idea di grande valore che merita di essere sviluppata per donare un nuovo slancio al movimento nel nostro paese.
SimOne
lunedì, luglio 17, 2006
CINEMA: Match Point
Premetto che non amo l’opera, specie nella sua veste da grande schermo. Ma l’impresa con cui Woody Allen si rimette in gioco è la sublimazione cinematografica di un atto teatrale elegante e raffinato, contemporaneo è al tempo stesso eternamente antico. Prendendo spunto dalla Carmen di Bizet e dall’opera drammaturgica italiana, infatti sottolineata da un’accurata ed incalzante scelta musicale, Allen concede nuove prospettive alla sua lunghissima carriera, allontanandosi dagli standard della commedia che l’hanno reso famoso. Lontano da casa, l’amata New York, Allen per il suo trentacinquesimo film da regista, il secondo consecutivo solo dietro la macchina da presa dopo Melinda e Melinda, sterza bruscamente, passando da una comicità fatta di dialoghi pungenti, alla tragedia rivista in chiave espressivamente visiva. Niente è così esplicativo quanto il titolo, che richiama al punto (tennistico) in un’intensa tragica partita sentimentale. Dove l’amore è sacrificato per la menzogna e l’agiatezza di routine. Chris Wilton (glaciale nel suo fascino distaccato, l’irlandese Jonathan Ryes-Myers), preparato maestro di tennis nei circoli altolocati, incontra il ricco Tom, che gli presenta la sorella Chloe, introducendolo ai piani alti della borghesia londinese. La turbolenta entrata di Nola (una Scarlett Johannson, a cui dona il bianco, davvero troppo seducente), nella sua vita divenuta ormai una scalata sociale, provoca in lui un desiderio incontrollabile. Fino a quando, costretto a scegliere tra la passione e la tranquilla sicurezza domestica, sarà portato a compiere la più subdola delle azioni. “Bisogna imparare a nascondere lo sporco sotto al tappeto, - afferma Chris - altrimenti se ne viene travolti”. E’ il preludio all’imprevedibilità dell’agire umano, implicato in mille sfaccettature, nessuna mai uguale all’altra. L’impatto emotivo che la pellicola ha immediatamente sullo spettatore denota la volontà di Woody di ricercare nella complessità dell’animo umano ogni possibile sfumatura, ora variando i temi sul dilemma, ora sull’inganno, per vedere sino a che punto un uomo si può spingere nelle sue convinzioni ed accettare le conseguenze delle proprie azioni. Il ritmo serrato e l’alone di malessere con cui i protagonisti sono costretti a convivere è ciò per cui Match Point può accostarsi ad un’opera enfatica, dove l’intreccio narrativo passa in secondo piano rispetto all’eleganza estetica delle immagini. In particolare nel soffermarsi spesso sulle inquadrature dei volti e della città, entrambi componenti cardine del racconto ed espressione della comunicabilità del regista. Match Point è un film che scorre liscio nelle sue due ore, analizzando nel profondo la psicologia dei protagonisti, in particolare di Chris, il quale incarna le convinzioni di una società in cui viviamo e di cui, se inaspettatamente privi, siamo pronti a difendere la spontaneità, anche irrazionalmente. In questa suo ultimo lavoro, Allen ritrova la verve di un tempo e, passando dal noir sofisticato al dramma, confeziona un piccolo gioiello che non annoia mai e che nel finale pone il pubblico su un piano emotivamente critico, senza lasciargli il tempo di ottenere in compenso una motivazione. Match Point ammalia per la sua storia improvvisamente vera e per la sua visione caustica dello scorrer del tempo, dove la fortuna di Chris si mescola ai fantasmi del rimorso, un insieme che non disturba affatto il settantenne occhialuto regista, anzi rappresenta la dimostrazione che è capace di soprenderci ancora.
SimOne
venerdì, luglio 14, 2006
MUSICA: FREDDIE MERCURY, l'uomo che volle farsi regina
Il mio primo contatto con i Queen avvenne in seconda media,quindi -ahimè- circa 12 anni fa. Mio padre mi regalò per Natale 3 cd: Thriller di Michael Jackson, Selling England by the pound dei Genesis, e il Greatest hits II dei Queen.
Fu una folgorazione.
Gli altri 2 album li sentii e li apprezzai, ma quello che ho letteralmente consumato fino allo sfinimento fu proprio quel concentrato del gruppo inglese, sintesi eccelsa dei brani dal 1982 al 91, secondo capitolo dopo il Greatest hits I, che portava seco perle come Bohemian Rapsody e molte altre.
Quello che la mia giovane mente di bambino non riusciva a comprendere era come quel disco, della durata di oltre un'ora, non mi stancasse mai....MAI; parafrasando Rod Stewart, "oltre un'ora di disco...e mai un attimo di noia".
Ora, dopo anni e anni di ascolto prolungato e variato ( sono un cultore anche dei primi Queen, quando l'anima heavy era intatta )non riesco proprio a farmeli venire a noia....e dire che ci ho provato! Sapeste quante ore ho "sprecato" ascoltando i Regina invece di studiare...bene, con il presente pezzo voglio porre l'attenzione- più o meno distaccata - sul principale fautore del successo eterno dei Queen...vale a dire Freddie Mercury.
Di lui si è scritto praticamente tutto, che si chiamava Farookh Bulsara, che è nato a Zanzibar, che aveva origini asiatiche nello specifico iraniane- qualcuno conosce "Mustapha" per caso?- e di lui si è parlato in tutte le salse..a volte mitizzandolo, a volte sminuendolo.
Freddie Mercury era un uomo, un essere umano.
E di tutto quel che ha fatto nella sua vita non ha mai schivato la conseguenza, in negativo o in positivo.
Con Mercury si vanno a toccare le corde dell’immortalità della musica….qui forse l’uso della parola “divino” non assume connotati blasfemi, ma va di pari passo con la parabola di un uomo che nella sua vita è stato un grandissimo cantante, un musicista, un attore e una gran puttana ( definizione sua ).
Cantante: qui si tralasciano le disquisizioni tecniche, perché come diceva il mio maestro di canto ( ebbene si, canto anch’io…sic ) Freddie non era comprimibile negli stretti parametri del bel canto, anzi esulava da questi, componendone di nuovi….nuovi registri, nuovi limiti.
Anzitutto il timbro, così inconfondibile, così urlato ma al tempo stesso compatto, potente…una voce che poteva urlarti in faccia e scompigliarti i capelli come poteva sussurrarti nelle orecchie, spesso con quel falsetto con il quale – erroneamente – i più lo identificano ( e lo paragonano a Justin Hawkins ); la voce che si spezza, la voce roca( “I like this husky voice” diceva lui..), caratteristica aumentata nel corso degli anni, forse per via delle numerosissime sigarette che fumava, e che è particolare che impreziosisce il timbro…come per esempio nel caso di Steve Tyler degli Aerosmith.
Un’estensione assoluta.
Per lo più verso l’alto, visto che i toni bassi non erano il suo forte - ma credo che nessuno glielo abbia mai rimproverato…- , con picchi sempre più alti mano a mano che diventava sempre più tecnico e abile e, ironicamente, moriva.
Musicista: un uomo che scrive una canzone come Bohemian Rhapsody non può essere paragonato alla stregua di un normale compositore…qui si parla della storia della musica, qui si parla- nel caso della Rapsodia- di un genere a parte.
Come quasi tutta la discografia dei Queen….. genere a parte.
Il loro mai incastrarsi in un movimento - a parte il Glam dei primi anni -, in un genere – li hanno provati tutti – o in un progetto, che so, di denuncia sociale, li ha resi mal inquadrabili e per questo ..scomodi.
Scomodi nel senso che certa critica continua a sostenere che non abbiano inciso per niente sulle sorti della musica mondiale…solo una macchina da singoli insomma.
Beh…secondo il modestissimo parere del sottoscritto, l’hanno cambiata eccome questa musica. Niente nelle canzoni dei Queen è lasciato al caso…nemmeno le imperfezioni.
Tutto quadra, tutto “ci sta”, tutto dà l’impressione di essere la ciliegina sulla torta…salvo accorgerti che la torta è tutt’altro che finita…
Il Mercury compositore era innanzitutto pianista…vale a dire che componeva al pianoforte anche canzoni in cui il piano non è protagonista ( Crazy little thing called love diceva , l’aveva scritta in bagno col pianoforte verticale… ); grazie ad una eccellente tecnica ed ad una notevole fantasia, le canzoni di Mercury, specialmente nei 70, non erano mai scontate, ne dal punto di vista dei testi – allegorici – ne da quello della musica - pomposa e gradevolmente avvolta di grandeur – e l’uso del piano, o meglio l’uso che ne faceva lui, gli permetteva di tendere al rockabilly come alla musica introspettiva, come nel caso di una delle mie canzoni preferite, It’s a hard life, dove la vena creativa di Mercury si fonde con lo stile Queen nello schema da ballata, rendendola quindi una “ballata alla Queen” inconfondibile.
Attore: attore sul palco, attore nelle interviste, attore non appena qualcuno cercava di carpire qualche segreto della sua vita privata…come quando gli chiedevano se fosse gay e lui rispondeva che era “gay come una giunchiglia”, salvo rispondere di no all’intervistatore successivo…diciamo la verità: bisogna essere anche un po’ matti per fare quel mestiere, per essere un’artista come lui ha saputo e voluto essere…e ci vuole una forte dose d’ironia per andare avanti, come per molte cose nella vita…
Sul palco era un demonio, inventore di un modo di muoversi ripetutamente imitato negli anni a venire, capace di offrire banane e champagne al pubblico e di trascinarlo in cori da stadio da leggenda….in assoluta sintonia motoria con la propria musica , ne interpretava a gesti le sintetiche intenzioni, dando la sensazione di essere il padrone davanti ai suoi sudditi.. un vero e proprio animale da palcoscenico, impossibile non divertirsi con lui.
La Puttana: beh, puttana come la intendeva lui era lungi dalla definizione spregiativa comune….intendeva puttana della musica, del prestarsi ad ogni genere, dal rock al pop, dalla classica alla dance, cioè quello che ha reso i Queen immortali.
Verso la fine degli anni 80 si stancò di questa autodefinizione e volle darsi una definitiva ripulita, riscoprendo temi nelle canzoni come la fede e la monogamia…in fin dei conti, Farookh, come molti uomini , intuendo la fine decise di smetterla con la sua filosofia “ tutto quello che voglio dalla vita è fare un sacco di soldi e spenderli” per dedicarsi a cose più terrene, ed in definitiva, molto più adatte a quei momenti.
Questo ovviamente non impedì al grande commediante di uscirsene con un colpo da maestro, vale a dire la pubblicazione di Innuendo, dove la sua voce si libra imperiosa a spezzare anche il male che, il 24 novembre del 1991, ce lo ha portato via.
“ Anche se dovessi morire domani, credo che non me ne importerebbe nulla…dalla vita ho ottenuto tutto.”
Freddie Mercury
( Stone Town, Zanzibar, 5 Settembre 1946 – Londra , Inghilterra , 24 Novembre 1991 )
Scion
giovedì, luglio 13, 2006
CINE-BIO: Jim Carrey
Nome all’anagrafe: JAMES EUGENE CARREY
Data di nascita: 17 Gennaio 1962
Luogo: Newmarket (Ontario – CANADA)
Debutto: "Introducing... Janet" (FilmTV, 1981)
Travolgente, vulcanico, superlativo: non basterebbe un uragano di aggettivi per definire colui che è, senza ombra di dubbio, il più grande talento comico dell'ultimo ventennio.
Grazie alla sua esuberanza e alla sorprendente mimica facciale, Jim “Faccia di gomma” Carrey si è affermato nella metà degli anni '90, arrivando ad ottenere un compenso come attore di 35 milioni di dollari a film. Ma la vita di colui che molti inopinatamente (per la loro evidente diversa comicità) definiscono l'erede di Jerry Lewis, è stata tutt’altro che semplice.
Jim Carrey nasce artisticamente a Newmarket, una cittadina alle porte di Toronto, da una famiglia cattolica della piccola borghesia canadese, come ultimo di quattro fratelli (Patricia, Rita e John), figlio di Percy e Katleen Carrey.
L'esordio di Carrey sul palcoscenico è stato nel ruolo di Babbo Natale in uno spettacolo messo in scena alla Blessed Trinity School. Qualche anno dopo, l'insegnante di Jim consentì al suo irrefrenabile alunno di improvvisare un quarto d'ora per i compagni, al termine d'ogni giorno di scuola. All'età di 12 anni, dopo che il padre perde l'impiego, la famiglia viene sfrattata e costretta a vivere nel camper, mentre Jim lavora come operaio in una catena di montaggio nell'acciaieria Titan. Carrey cercò uno sfogo alla sua rabbia tentando di lavorare come attore comico, ma al suo debutto allo Yuk Yuk's di Toronto fu spietatamente fischiato. Jim però non si perse d'animo e continuò ad affinare la sua tecnica, prima nei club di Toronto e poi al Comedy Store di Los Angeles. Dopo aver lasciato la scuola a soli 16 anni, dove si dilettava nelle imitazioni di Jimmy Stewart (il suo attore preferito) ed Henry Fonda e dopo un’adolescenza irrequieta, molti sacrifici e anni di gavetta, nel 1983 debutta sul grande schermo con All In Good Taste e l'anno seguente nella serie televisiva “The Duck Factory”. Nel 1986, conclusi alcuni lungometraggi di scarso rilievo, arriva finalmente il salto di qualità. Francis Ford Coppola lo vuole nella sua commedia Peggy Sue si è Sposata, dove l'attore recita al fianco di Kathleen Turner e Nicolas Cage. Alternandosi tra cinema e tv, l'esilarante comico è stato protagonista di un suo celebre special intitolato "Jim Carrey's Unnatural Act" (in cui sfodera le prorompenti doti di intrattenitore) e della fortunata sitcom della Fox "In Living Color" (dove era l'unico bianco in un cast di afroamericani). Poi, all'inizio del 1994, dopo quindici anni di lavoro come attore di serie B, Tom Shadyac (che successivamente girerà con Carrey altre tre pellicole) lo scrittura. Un solo film, Ace Ventura: L'acchiappanimali, trasforma Jim Carrey in una star, e prima della fine dell'anno il trionfo al box office sarà replicato con The Mask e con Batman Forever. Nel 1995, dopo il successo di Scemo e più scemo, Carrey ha vinto il trofeo NATO/ShoWest assegnato al miglior attore comico dell'anno. Nel 2000 si è visto assegnare lo ShoWest Award come miglior attore maschile. Scemo e più scemo aveva vinto anche il People's Choice Award, con Carrey candidato nella categoria Miglior attore comico, riconoscimento che si è aggiudicato l'anno successivo grazie ad Ace Ventura - Missione Africa. Oltre alle numerose candidature per svariati altri premi, Carrey ha vinto cinque MTV Movie Award grazie agli altri film che seguiranno e che faranno di Jim una star planetaria, nonché uno dei divi più amati e contesi di Hollywood. Vincitore di due Golden Globes (ottenuti grazie alle toccanti e sorprendenti interpretazioni drammatiche in The Truman Show e Man on the Moon), l'attore dai brillanti occhi espressivi e dal sorriso irresistibile è puntualmente presente nelle classifiche dei divi più sexy del pianeta, redatte ogni anno dai magazine 'People' ed 'Empire'.
Grande amante della musica rock, Carrey, è uno sfrenato cantante (nel 1998 si è esibito a sorpresa durante un concerto di Elton John, cantando con lui “Rocket Man”). Inoltre adora leggere, dipingere e il cibo messicano. Trascorre gran parte del tempo libero in compagnia del suo iguana Houston e dei suoi tre cani. Per quanto riguarda la vita sentimentale, Jim è stato sposato due volte: la prima nel 1987 con l'attrice Melissa Womer, conosciuta al Comedy Store, da cui ha avuto una figlia, Jane. Il secondo matrimonio invece, risale al '96 con Lauren Holly, da cui ha divorziato l'anno seguente. Recentemente il carismatico divo ha concluso la sua tormentata relazione con la bionda collega Renée Zellweger.
L'attore (un mito per me), attualmente impegnato in numerosi set tra cui The Six Million Dollar Man per la regia di Todd Phillips, tornerà presto nei nostri schermi al fianco di Tea Leoni Duchovny con “Fun with Dick and Jane”, remake della commedia Non rubare, se non è strettamente necessario diretta da Ted Kotcheff nel 1977. Inoltre, Jim ha appena iniziato le riprese del film fanta-comico “Used guys”, dove sarà affiancato da un altro grande comedian, Ben Stiller.
La lacrima che scende dal volto truccato del clown è smascheramento, esibizione, tragedia di una personalità rivelata nell’ultimo modo possibile. E’ interessante provare a studiare la geografia impazzita del volto di Jim Carrey. Una maschera, un artista, ma non solo. Questo è in sintesi Jim Carrey, l’interprete dei più recenti “Una settimana da Dio” (col ritorno alla commedia slapstick) e del poetico “Se mi lasci ti cancello” (Eternal sunshine….da una poesia di Alexander Pope, vincitore dell’Oscar come migliore sceneggiatura originale), è diventato ciò a cui sempre ha mirato. Un attore serio in carne ed ossa, che rende credibile anche il demenziale e il burlesco.
Link Sito ufficiale (per immagini e news): www.jimcarreyonline.com
SimOne
lunedì, luglio 10, 2006
CALCIO: CAMPIONI DEL MONDOO!!!
venerdì, luglio 07, 2006
CINEMA: La dura legge del botteghino
PREQUEL, SEQUEL, REMAKE...
Nessuno dovrebbe sconvolgersi nel sentir dire che il cinema non è più quello di una volta. Ormai è appurato che non tutti i film sono concepiti dalla genialità di un talentuoso sceneggiatore o dall’estro di un qualsivoglia regista. La regola, sempre più ferrea, urlata da Hollywood sino al panorama cinematografico europeo, è diventata ufficialmente legge: la prima parola spetta al box office. Da quando l’avvento del cinema digitale ha sommerso le major dell’industria della celluloide, la fase della pre-produzione risulta sempre meno essere un compito di un “creatore” artistico, a cui casomai spetta la seconda o la terza stesura. La preparazione di un film è la risultante di una programmata strategia di ritorno economico, predisposta da uno specialista del settore che analizza il potenziale valore di un film (ancora da realizzare) e lo confronta con l’eventuale successo in termini di guadagno. Dirigere una pellicola spesso non è una forma d’arte, come molti romantici del mestiere credono, ma rischia di diventare un semplice algoritmo matematico. Vi siete mai chiesti cos’è esattamente un remake? E che cosa significhi la parola sequel? Entrambe le definizioni si riferiscono appunto a questo meccanismo produttivo, che negli ultimi anni sta prendendo piede rapidamente, non sempre con risultati positivi. Un remake indica infatti il rifacimento di un film passato ed è un’operazione apprezzata, se è trascorso molto tempo dalla apparizione di quest’ultimo sul grande schermo. Recentemente sono state riproposte, con effetti alquanto mediocri, alcune pellicole uscite solo pochi anni prima e magari in un’altra nazione (per cui se ne sfrutta l’attrattiva esotica). Per i prequel ed i sequel il discorso è differente. Mentre i primi sono un raro caso di anticipazione di un noto successo commerciale, teso a spiegare gli avvenimenti antecedenti l’originale, i secondi ultimamente sono l’esempio evidente della questione trattata. I migliori exploit delle ultime stagioni sono film tratti da fumetti o basati su romanzi venduti in milioni di copie, ma anche commedie, cartoon e pellicole di fantascienza: lungometraggi come Spiderman, Harry Potter, Matrix, Kill Bill, Shrek, Scary Movie, ecc. Non si discute sul fatto che questi, per la loro capacità d’attrarre le masse, hanno avuto grande presa sull’immaginario collettivo. Il bandolo in realtà è proprio qui, ossia film concepiti come unici e non come saghe, dopo la rivelazione al grande pubblico e gli enormi incassi, hanno convinto le major a progettarne dei sequel forzati. Di contro a queste considerazioni sono arrivate delle secche smentite da alcune opere seconde, visti le ottime critiche che hanno accompagnato il seguito di Spiderman e Shrek 2. Ma si sa, le eccezioni confermano la regola, quella non scritta, che verte a favore della “fatica” originale. Il caso più considerevole è l’impressionante campagna pubblicitaria relativa alla seconda saga di Star Wars, una completa rivisitazione di uno dei più appassionanti fantasy movie di sempre. Ripresentato da George Lucas a distanza di trent’anni, ha giocato sulla nostalgia dei fans, che, nonostante il desiderio di rivedere gli eroi della prima trilogia e di vedere come tale saga ebbe inizio, non hanno nascosto la propria delusione per la carenza di contenuti in Episode 1 e 2. Insomma chi ne è rimasto affascinato in un primo contesto, nonostante l’adattamento digitale, ora trova la riproposizione del tema banale e fin troppo tediosa. Bisogna dunque rilevare che spesso il sequel (ma anche il sequel del sequel e così via), non è altro che il voler spremere lo spettatore fino all’eccesso. A tale concezione del cinema, si oppongo ancora artisti di grido, geniali scrittori come il cervellotico Charlie Kaufman (autore di Essere John Malkovich e Se mi lasci ti cancello) o anche produttori indipendenti, che promuovono prodotti, ovvero quello che pur sempre sono, esaltati dal valore unico dell’opera. Non dovremmo perciò meravigliarci che il cantiere di produzione filmica non rispetti un modello ideale, perché è di fatto un mestiere che gira attorno al denaro. Questo lo sapevamo già e dovremmo sapere anche che abbiamo ancora dalla nostra, il potere d’influenzare l’uscita o meno di una determinata pellicola: in fin dei conti il botteghino siamo noi, spettatori paganti di una manifestazione artistica e non un pubblico assuefatto alle regole del mercato. Fortunatamente ancora la maggior parte dei progetti sono orientati in tal senso e ora stiamo solo definendo una situazione minoritaria e sotto controllo. Tutto ciò sperando che sceneggiature, soggetti e bozze passino ancora a lungo per le mani di persone capaci, quelle stesse che operano effettivamente di fantasia, originalmente o meno, e che con il loro talento contribuiscono incessantemente allo sviluppo della creatività filmica, restando così al servizio del buonsenso cinematografico e non della formalità delle strategie finanziarie.
SimOne
MUSICA: Come ti rispolvero gli '80...
Verso i primi anni 90 si fece largo nel mondo della musica un nuovissimo movimento che, puntando sul minimalismo tecnico e su camicie a quadrettoni e jeans strappati (…), si prefiggeva lo scopo di trovare i mali della gente, stanarli, guardarli in faccia e poi rimetterli in quel gran cassettone che è il nostro inconscio. Questo movimento fu denominato Grunge... Zozzo insomma. Letteralmente il significato del termine inglese grunge è “sporco”, “sudicio”, significato che evidenzia l'aspetto estetico trasandato dei protagonisti, nonché una scarsa ricercatezza tecnica comune a numerose band in questione, interessate maggiormente all'immediatezza e alla forza della propria musica e delle proprie parole.
Come ci ricorda l'amica enciclopedia Wikipedia infatti, il Grunge era l'esatta antitesi dell'elevatezza tecnica, delle belle macchine, della vita da star....i protagonisti del Grunge, di cui massimo esponente fu Kurt Cobain e i suoi Nirvana, infatti non facevano niente per sembrare star, anzi, se mi passate la triste immagine, sembravano appena usciti dalla strada...e potremmo quasi dire che la strada era rimasta in loro, impressa a fuoco nel loro inconscio.
Probabilmente per circostanze più o meno volute, il Grunge col suo impeto distruttivo - di cui il video “smells like teen spirit”" è lo specchio fedele - spazzò via tutta la spensieratezza , la pomposità , la trasgressione e l'esaltazione di tutto ciò che è effimero e superfluo degli anni '80, instaurando nel pensiero comune una sorta di “rigetto” degli anni in questione, relegati soltanto al triste riferimento della dance casereccia -come nel caso dell'Italia- da ballare quando proprio non c'è altro da fare, solo per farsi due risate. Niente di più ingiusto.
Il periodo dal 1979, anno d'uscita di Reggatta de Blanc dei Police, fino ai primissimi anni 90 è stato uno dei più prolifici della storia della musica, e ha visto nello scorrere dei suoi giorni l'ascesa e il declino di alcune delle pagine più belle di quegli anni…e anche molte delle pagine più brutte. Putroppo non tutte le ciambelle nascono col buco...e 'u magnific' babbà che furono gli anni 80 perdeva un pò di crema spesso e volentieri...
Il mondo assistette allo scadentissimo pop di quegli anni, in alcuni casi veramente imbarazzante, ma non fece nulla per boicottarlo, in quanto lo ballava imperterrito on the dancefloors, dimentico di tutto quello che poteva avergli riservato di negativo la vita quel giorno.
Quegli anni furono spensierati perché la gente VOLEVA essere spensierata, mica perché fosse più stupida...dopo la sbornia di pseudointellettualità che il '68 portò come culmine e come croce al tempo stesso, c'era voglia di accendere la radio e di distrarsi un pò e basta, e ci fu chi ci marciò allegramente. Ma non mi si venga a dire che fu tutto così, perché così dicendo si commette un errore storico e musicalmente parlando inaccettabile.
U2, Bon Jovi, The Police, Guns&Roses, Iron Maiden, Metallica, Queen, Aerosmith, Michael Jackson, Prince....ne ometterò sicuramente qualcuno, ma sono veramente troppi...troppi sono i gruppi o i personaggi che videro l'ascesa o l'eterna consacrazione negli '80, e scrissero alcune delle canzoni più belle e conosciute dei tempi moderni. Altro che "morte della musica" come li apostrofano alcuni. La musica in quegli anni vide il boom del primo Cd, dell'esplosione totale del videoclip, della nascita di Mtv, della nascita di generi di denuncia come il Punk e l’Hip-Hop, e della sempre più copiosa partecipazione Musica/ Cinema, e ne fu sopraffatta. Logico aspettarsi il rigetto più totale. Ma ora, a distanza di 20anni, sarebbe d'uopo una disamina più accorta e lucida dei cotonati anni '80, senza lasciarsi prendere dal disgusto totale.....anche perché oggi non siamo messi meglio. Ormai i gruppi veramente tecnici -e per tecnico intendo capace di scrivere belle canzoni, non un cavolo di virtuoso- sono pochissimi, e non vedono quasi mai le luci della ribalta. Causa Britney Spears & Co., causa il dilagante movimento Rap, che, a detta di chi ci capisce sul serio, oramai di Rap ha ben poco, etc etc etc... Questo ci porta o all'avanguardia e allo sperimentalismo più esasperato, oppure a pescare a piene mani dal passato, cosa che, specialmente i rappers o cosiddetti tali, si è sempre fatta e sempre si farà.
Curiosità:
E' tutta colpa dei Queen. Se nel '75 invece di girare il primo videoclip della storia con Bohemian Rhapsody si fossero fatti gli affari loro, gli anni 80 li avremmo vissuti con maglioni di kashemire, occhiali quadrati e un bel libro di Dostoevskij...altro che a ballare in discoteca!!
Scion
mercoledì, luglio 05, 2006
BASKET NBA: Date a Kobe quel che è di Bryant
Archiviata la stagione 2005/06 dei Los Angeles Lakers, gli addetti ai lavori Nba si sono trovati a far fronte con un nuovo candidato alla successione di Sua Ariosità Michael Jordan, ovvero quel magnifico giocatore che è Dwayne Wade. Inutile dire quanto sia opinabile per il sottoscritto la moralità della ricerca stessa di un erede di colui che ha letteralmente riscritto il modo di giocare a pallacanestro, oltre ad aver portato a vette più alte il concetto stesso di "vincente"; ma volendo proprio prestarsi al giochetto tanto caro ai giornalisti americani, posso tranquillamente assentire sul paragone Jordan- Wade..in quanto regge alla perfezione. Wade ricorda molto il primo MJ. Alto sul 1.95, fisico molto ben costruito, braccia e gambe lunghe e mani grandi, essenziali quando si conclude in acrobazia, D-Wade ricorda Michelino Giordano nelle movenze, nella presenza agonistica, nella cattiveria,e nell'orgoglio che contraddistingueva anche il primo Michael, orgoglio che lo portava ad esagerare a volte...esattamente come esagera Wade (anche se nessuno lo dice mai). Flash ricorda il primo MJ anche nella discontinuità del tiro da fuori, complice una meccanica che fa troppo affidamento sulle gambe ed è efficace solo- e sottolineo solo- quando è marcato blandamente e soprattutto non raddoppiato. Ora, Wade ha vinto il titolo da protagonista, con oltre 34 p. di media e un dominio assoluto del campo e delle situazioni di gioco chiave...e tutto ciò è molto evocativo. Ma...c'è SEMPRE un ma. C'è anche da dire un paio di cosettine sul sistema difensivo dei Mavs, specialmente nella strategia stessa:
1- Avery Johnson, coach di Dallas, ha spiegato di averle provate tutte su Wade, ma questa è una mezza verità.
2- Contro Miami puoi essere punito da molti, troppi giocatori chiave..da J.Williams ad Antoine Walker, fino ai veterani Mourning (5 stoppate 5 in gara 6)o Payton (Do you remember the last clutch shot ?) ma non dimentichiamoci di Shaq!
Anche se ormai al capolinea, se l'omone nero non lo marchi col raddoppio ti frega comunque, altro che marcarlo uno contro uno, come fecero New Jersey - la maggior parte delle azioni-, Philadelphia - sempre - e Indiana-povero Rik Smits...- i Mavericks l'hanno triplicato ad ogni possesso palla signori, rispolverando addirittura il vecchio e pernicioso hack a Shaq...e questo cosa vuol dire in termini cestistici? semplice: più spazio per gli altri, e dove ci sono gli altri, vince quello dotato di maggior talento…vale a dire Dwayne Wade. Ecco perchè non credo nei nuovi Jordan, perchè l'incoronano troppo presto. Invece parliamo di Bryant. Quel che disturba oggigiorno è che Mr. 81 punti , o Mr. 62 in tre quarti o Mr. 35.4 di media o come cavolo volete, non sia un giocatore da paragonare ad altri giocatori....bensì sia ormai un giocatore al quale gli altri devono essere paragonati! Un simile onore in Nba, non te lo concedono facilmente , e forse, se Kobe non vincerà altri titoli da qui alla fine della sua carriera, non glielo concederanno mai..nemmeno dopo il suo ritiro. Kobe, per usare un termine filosofico, è "trasceso" dallo stereotipo di Michael Jordan - certo ormai la linguetta, il fade away e le movenze sono quelle, figlie di innumerevoli ore davanti al videotape vedendo Above & Beyond - per collocarsi in un'altro piano, nè più in alto, nè più in basso, che consente ai più di dire che è il più forte giocatore Nba individualmente ma, alla luce dei risultati di squadra, non è Michael Jordan.
E grazie. Sennò si chiamava Michael Jordan. Ricordo che anche Jordan veniva letteralmente martoriato negli anni in cui vinceva i riconoscimenti individuali, ma non quelli di squadra, accusato di egoismo, di annientamento psicologico dei compagni, oscurati dal carisma del 23, e ricordo che una volta, Horace Grant, suo compagno dei primi 3 titoli a Chicago, gli disse" va a quel paese Michael, tanto lo sanno tutti che a te interessa soltanto prenderti i tuoi tiri e basta"...la risposta di Jordan ve la risparmio, in quanto non proprio Oxford..ma il buon Orazio sbagliava nell'accusarlo di questo, in quanto l'unica colpa di MJ, se colpa la vogliamo considerare, è sempre stata quella del "ragazzi, sono sicuro che vinciamo, ma se volete vincere, dovete fare come dico", di sicuro Jordan non ha mai detto qualcosa di simile, ma sicuramente in cuor suo è quel che pensava...e guarda il caso, è la stessa cosa che pensa Bryant. Di Jordan i compagni impararono ad apprezzare questo lato, ma soprattutto-scusate la franchezza- impararono ad apprezzare le vittorie...perchè se Jordan non avesse vinto, ora se la lotterebbe con Bryant per la palma di miglior egoista della storia. Ma ha vinto! quindi ha ragione lui. Ecco come si ragiona in America. Quindi, poichè credo ciecamente che il giocatore più forte del mondo prima o poi almeno un'altro titolo lo vince, nel frattempo si possono tranquillamente annotare tutte le più disparate critiche a Kobe Byant, sul suo carattere, sulle poche vittorie ( anche se quest'anno sono usciti per inesperienza..occhio...), ma... per favore: date a Kobe quel che è di Bryant!!!
Scion
Tra tanti argomenti ecco i Mondiali
Fratelli d'Italia siamo in finale!
Con tacito assenso dei campi da basket, di questi tempi a riposo o nelle varie summer leagues, spuntano inevitabili le considerazioni sul Campionato del Mondo di calcio.
E allora:
FORZA AZZURRI
N.B. Chuck Norris può vedere le partite di sky, senza parabola e senza decoder, semplicemente guardando verso il cielo.
(da http://welovechucknorris.blogspot.com/)
lunedì, luglio 03, 2006
CINEMA: Day zero, L'amore sospetto
Inizio, Luglio 2006.
Prima pagina di un sito che intende toccare le tematiche più energetiche ed attuali di tre particolari lati dell'intrattenimento.
A cura di SimOne e Scion...
Prova iniziale con la recensione di un film da poco uscito nelle sale:
L'amore sospetto (La moustache)
La mente umana è avvolta dal mistero. Insidiosa e imperscrutabile ammalia e spaventa chi non è in grado di spiegarla. Ma chi lo è? Chi riesce a darle un significato concreto che trascenda dalla sua espressione cinematografica? Una larga parte del cinema francese ha scelto di raccontare questa realtà dal potenziale sconfinato, ci mostra quanto sono intricati i nodi che si possono affacciare in chi guarda e osserva. La moustache appartiene proprio a questo filone, tradotto (ormai sempre più) banalmente come L’amore sospetto, sconfina nel limbo dell’inconsapevolezza e della follia partorita da una mente disturbata. La seconda regia dello scrittore Emmanuel Carrere (ispirata a un suo libro), vincitrice della Quinzane a Cannes, è un’opera affascinante quanto incompleta, che parte bene per poi perdersi in una regia spesso fuorviante ed evanescente, riferimento alla netta distinzione tra una sintomatica prima parte parigina ed una onirica in quel di Hong Kong. Carrere vorrebbe esplorare l’abisso che si cela dietro la normalità, le certezze che divengono timori, il progressivo abbandono della sanità mentale. E lo fa mettendo in scena due figure distinte, l’affabile Marc, Vincent Lindon, e sua moglie, un’inquietante Emmanuelle Devos. Il primo dopo tanti anni decide di tagliarsi i baffi, ma nessuno si accorge del cambiamento, anzi, tutti quanti, compresa la consorte, affermano che lui i baffi non li ha mai portati. La progressiva degenerazione di tale suspence è l’espediente che serve all’autore per esprimere il proprio personalissimo movente, che però risulta astratto e tedioso, rispondendo difficilmente ai numerosi quesiti che il film pone e che lascia aperti. L’amore sospetto, utilizzando la paranoia come motore d’azione anche nei momenti più silenti, vuole appositamente fornire poche risposte, spiazzando il pubblico, sedotto e lasciato di fronte al tema principale in mancanza di spiegazioni. La coppia d’interpreti risulta molto affiatata, ma questo non basta a salvare il tono di un film che fa della sua non conclusione l’anello debole di tutto il plot. Le chiavi di lettura sono molteplici, l’impossibilità di accettare il cambiamento, la perdita di sé come unica speranza di recupero, persino il sogno/incubo come tentativo di immaginarsi una vita diversa (ma quanto migliore??). Se frolliamo il tutto in un unico calderone vediamo che l’intero impianto narrativo non può sorreggere una struttura mancante, una storia che sì, affronta il tema della progressiva perdita di fiducia nel rapporto di coppia, ma che mostra poco o niente per forgiare in noi l’idea di quella follia flirtata quale ossessione del nulla, disordine e ordine che appartengono solo inconsciamente ad un caos della psiche. Il concerto per violino di Philip Glass ipnotico ed evocativo, accompagnando tutta la narrazione, svolge un ruolo fondamentale nella costruzione dell’atmosfera di un film che rimane sospeso tra sogno e realtà. Ciò che invece non viene sfruttato appieno è la buona idea di partenza, lasciando lo spettatore con la certezza di aver assistito ad un progetto autoriale legittimo ma non ben delineato, un’opera che per l’enfasi di quello che vuol raccontare finisce col limitarsi ai meravigliosi scorci delle due metropoli in cui è ambientata.
SimOne
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