sabato, maggio 31, 2008

MOVIE RESTYLING


SIMULESCION3
HA CAMBIATO CASA, FINALITA' E OBIETTIVI:
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lunedì, luglio 02, 2007

CINEMA (ending..): La tigre e la neve+saluti


Al traguardo di un anno di attività e pubblicazioni da parte del nostro blog-sito di diversa attualità, il medesimo chiude per ragioni di varia natura, tra cui impegni sempre più pressanti per i due autori:
SimOne e Scion
Dunque, il nostro spirito digressivo verrà incanalato in quest'altro pezzo, una recensione (come avevamo iniziato) nemmeno troppo recente dell'ultimo film di Benigni. Grazie a chiunque ci abbia seguiti fin qui per la sua pazienza, speriamo vi siate divertiti e incuriositi insieme a noi....un saluto a tutti!! cheers
ciao
SIMULESCION3
La tigre e la neve
La poesia spesso si assume i canoni di un racconto a divulgazione etico-morale, ma non sempre è così, non sempre ha una finalità costruttiva. Perché la poesia tradotta in fiction è utile al narratore anche solo per raccontare una storia, una storia d’amore che si eleva dallo sfondo di un conflitto militare, che è sinonimo della “non-pace” nell’Iraq dei giorni nostri. La tigre e la neve, che nel film diventa l’immagine dell’infatuazione, dell’amore per la vita e della vita stessa donata per amore, è proprio questa rappresentazione, una fiaba modernissima sull’assurdità di quel luogo comune che è la guerra. Il poeta Attilio (“l’istrione” Benigni) affronta il suo viaggio surreale come spesso gli è accaduto in passato, avvolto da un’aurea di candore che gli permette di attraversare Bagdad praticamente illeso e quasi inconsapevole, proprio come sul tappeto volante delle Mille e una notte, insieme al fidato amico e collega Fuhad (un convincente Jean Reno). Egli intraprende il suo cammino “isterico” e grottescamente allucinante da Roma alla martoriata capitale irachena per salvare l’amata Vittoria (una Nicoletta Braschi che ben figurerebbe nel museo delle cere di Madame Tussaud), biografa di Fuhad e rimasta gravemente ferita nel crollo di un palazzo bombardato da non si sa bene chi. Benigni, contrariamente alle due opere precedenti a La Tigre e la neve, La vita è bella e Pinocchio, si sofferma su un registro linguistico sostanzialmente diverso, sceglie un tono sommesso, commovente, ma a tratti anche nevrotico e irriverente. Il film non viene mai abbandonato dall’animo comico e sbruffone che ha sempre accompagnato la carriera del nostro caratterista premio Oscar ed è intrisa d’immagini suggestive, ricostruite tra la Tunisia, Roma e la fabbrica abbandonata (ormai un set) di Papigno, vicino Terni. Ogni sequenza, i particolari provocatoriamente poco curati quali le fasi iniziali e altre scene, come il piano sequenza di chiusura, sono perfettamente riuscite ed inserite ad hoc. Per il fiume di emozioni che pervade la pellicola non basterebbe un montaggio della durata di quattro ore, perché quello che vuole trasmettere Roberto Benigni (l’impersonalità nei suoi confronti è sempre inadatta) è l’egoistica insensatezza del dover combattere, la cui giustificazione è farlo per la persona che si ama e la cui unica banale spiegazione é che “al principio sulla Terra tutto è iniziato senza l’uomo e senza l’uomo tutto finirà”. Certo la pellicola ha i suoi difetti, come un montaggio alquanto frenetico specie nelle progressioni dell’iperadrenalinico Attilio e ogni tanto, nonostante la seconda parte sia nettamente la migliore, come l’inverosimiglianza dei momenti sospesi tra il comico ed il tragico. Inoltre, l’opera è stata accusata di mancanza di etica verso un conflitto mai ben rappresentato. Le intenzioni di Benigni, invece, dovrebbero esser chiare nel momento in cui si rivolgono ad un pubblico che in ciò voglia credere, si riflette nel tentativo incosciente di salvare la donna dei suoi sogni (e non è una metafora), perché chiunque si trovi in mezzo al “caos guerrafondaio”, non pensa ad altro che ai propri interessi posti fino all’eccesso ed intesi come la salvaguardia della propria persona e di quelle a se care, anteposte a qualunque cosa circondi gli avvenimenti in questione. E non importa doversi schierare contro qualcuno, contro la Croce Rossa sempre bloccata o in ritardo, contro l’insicurezza delle forze armate statunitensi, contro gli iracheni pseudo-furbi e sempliciotti, il regista non vuole addossare la colpa a nessuno, se non a noi stessi. Qui il nemico è soltanto la guerra che distrugge ogni speranza di coesistenza, che annienta la bellezza dell’esistenza e dell’amore che da essa ne scaturisce. Per questo ha ragione il poeta Benigni quando afferma che “anche da morto sono sicuro che mi ricorderò di quanto mi piaceva la vita”. Non serve sapere altro per capire che in questo dovremmo essere d’accordo con lui.
SimOne

mercoledì, giugno 20, 2007

BASKET: Campo estivo alla Sam




Basket a 360 gradi: questa è la «Summer League 2007», organizzata dalla UISP Roma. Una manifestazione giunta alla sua IV edizione e che quest’anno lascia la vecchia location, il Testaccio, per stabilirsi presso lo storico impianto sportivo della Sam Basket Roma di viale Kant 305: proprio la stessa palestra dove è cresciuto Andrea Bargnani, l’ala che gioca oggi in NBA con i Toronto Raptors, nato però nella capitale il 26 ottobre 1985. Partita lo scorso 15 giugno, la «Summer League» 2007 della Uisp, supportata da altri sponsor importanti quali Algida e Lipton, andrà avanti sino al 25 giugno e, come detto, si disputerà sui campi da gioco della società diretta da Roberto Castellano, mentore e allenatore del giovane Andrea Bargnani: «Dopo quattro anni di grande successo - ha spiegato Andrea Novelli, presidente dell’Uisp Roma - quest’anno abbiamo deciso di spostarci da Testaccio a questo bellissimo impianto. Qui si respira basket per 360 giorni all’anno, e anche noi come Uisp, facciamo basket senza sosta con il puro intento di divertire ogni ragazzo che ama la pallacanestro, senza l’assillo dell’alta prestazione». Il padrone di casa Roberto Castellano ha voluto ricordare come su questi campi ha iniziato a giocare Andrea Bargnani: «Era un ragazzo come questi che giocano qui oggi, ma si vedeva già che era destinato a diventare un campione. Ringrazio l’Uisp con cui collaboriamo da anni e che ci permette di ospitare questa grande manifestazione e dare la possibilità a tutti di giocare a pallacanestro». L’organizzatore Onorio Laurenti, presidente della Lega basket Uisp Roma e Vincenzo Macchini, hanno sottolineato il ricco programma della manifestazione che parte con il consueto «Summer Basket 3 on 3», il torneo aperto a tutti che dalle 19,30 richiamerà gli appassionati romani della palla a spicchi di qualunque età. Confermato anche l’appuntamento con Andrea Niccolai, ex giocatore della nazionale e della Virtus Roma, e il suo «Free Camp» di giovedì 21 dalle 16. Fino a sabato 23 alle 18 l’Alaip (Associazione laziale allenatori e istruttori di pallacanestro) terrà il suo «Super training coach», rivolto ad allenatori federali e di enti di promozione, mentre il 25 giungo si terrà un convegno su «Basket e disabilità» che porterà alla luce le tante organizzazioni di disabili che utilizzano la pallacanestro come terapia: «Sarà una grande occasione di basket - spiega Vincenzo Macchini -. Partite, clinic, corsi per allenatori e approfondimenti importanti, come i due dibattiti che vedranno interventi da parte di molte società che operano nel basket giovanile qui a Roma. Sarà un vero e proprio villaggio del basket, dove la pallacanestro sarà protagonista al 100%».

simulescion3

giovedì, giugno 14, 2007

CINEMA: Professione doppiatore


Quanto contano in Italia le “Voci senza volto”? Viaggio all’interno delle sale d’incisione.. (sopra Luca Ward)
Roma – La saletta buia è illuminata solo dalla lampadina sullo scrittoio e dal chiarore dello schermo. Pian piano gli occhi si abituano,così l’ambiente intorno a noi prende forma,rivelandoci il luogo dove i doppiatori lavorano,il loro habitat naturale. Uno di loro sta rileggendo la parte che dovrà incidere,mentre l’assistente rivolge un cenno al di là del vetro insonorizzato al direttore del doppiaggio. Si può iniziare.
L’Italia è uno dei pochi paesi che può vantare una lunga e storica tradizione di doppiaggio,nonostante nei primi tempi,e si parla di diverse decadi fa,chi dava voce ai volti degli attori non era osannato,anzi trovava più critiche che assensi. Nata comunque per esigenze di scarsa alfabetizzazione nazionale,la figura del doppiatore fu interpretata agli esordi da pochi volenterosi,i soliti noti che ritroviamo sempre in ogni film dell’epoca. Successivamente,e per giusti meriti,questa professione è stata molto valorizzata,fino a giungere all’importanza che ha acquisito negli ultimi anni. Fare il doppiatore richiede grande sacrificio,un ferrea determinazione,l’essere “attore” fuori dagli schermi e senza un pubblico dinanzi. La questione,dunque,non è discorso di impegno lavorativo,ma solitamente nasce quando il pubblico si divide su una stessa opinione. Perché è ormai chiaro che da tempo c’è chi sostiene che una qualsivoglia pellicola cinematografica possa incrementare il proprio valore,se proiettata in lingua originale. Ci sono altri,invece,per i quali i sottotitoli creano disagi nella lettura e l’idea di privare i loro idoli della voce che li ha fatti “innamorare”,è vista come delitto sacrosanto. Altri ancora si astengono. Certo,se si pensa a voci storiche come quelle di Ferruccio Amendola o Giancarlo Giannini,i doppiatori di icone hollywoodiane quali Robert De Niro e Al Pacino,ma anche a certe “nuove” leve come Luca Ward,Roberto Pedicini,Alessandro Rossi, Tonino Accolla e via citando,si fa presto a schierarsi con i secondi. Ma se si assiste a Festival o Mostre del Cinema,come quella di Venezia,dove si rimane incantati di fronte alla bravura recitativa di alcuni attori,bisogna dare ragione anche ai primi. Sta a noi tutti scegliere ciò che si adatta maggiormente alle nostre esigenze. Gli addetti ai lavori si interrogano spesso su questo dibattito,anche se la soluzione resta ancora aperta. Sicuramente l’obiettivo,tutt’altro che utopico,dovrà essere almeno quello di concedere allo spettatore la possibilità di decidere,per conto proprio e senza imposizioni,verso quale delle due scelte optare. Per ora lo scenario,a meno di quelle eccezioni riassunte nelle sale che già offrono questa disponibilità,resta tale e immutato. Perciò,quando al termine di una proiezione scorrono i titoli di coda,soffermiamoci anche sui nomi di chi,dall’ombra,presta la sua voce al cinema.
SimOne

lunedì, maggio 28, 2007

MUSICA: "Eat me, drink me''


Direttamente dal blog del Menin, in arte BBS:
www.circosceno.blogspot.com

ecco la recensione dell'ultimo album dei Marlyn Manson, intitolato ''Eat me, drink me''.

Come avviene per ogni nuova uscita, Manson cambia e muta in qualcosa di diverso. Da Anticristo a rockstar androgina, da messia gotico a dandy postindustriale, Manson ha saputo sempre reinventarsi, a volte con risultati discutibili (chi ha detto The golden age of grotesque?), a volte con risultati eccelsi.
L' ultima trasformazione è la più dolorosa, Manson è diventato Brian Warner, mettendo in musica un anno trascorso all' inferno. ''Ad un certo punto dell’anno scorso mi sentivo immerso nel più profondo buco nero della depressione”, riferisce, “non potevo fare nulla, non riuscivo a far niente, ero senza speranza”. In quel periodo alla madre di Manson era stata diagnosticata una malattia mentale, e lui era “Intrappolato in uno dei cliché del rock’n’roll, circondato da persone che lavorano per me e che mi derubavano alle spalle. Non avevo interesse nella musica e il film sul quale avevo messo tutto il mio impegno – Phantasmagoria, basato sulla distorta vita di Lewis Carroll – era diventato un pesante fardello psicologico''.
Fino ad ora sono riuscito ad ascoltare quattro songs:
''If I was your vampire''- Lenta ed oppressiva ballata di sei minuti. L' arrangiamento è volutamente ridotto al minimo, basso,batteria,chitarre e un impercettibile tappeto di tastiere.
Manson, e questa è la vera novità, non urla il suo dolore, ma lo canta, centrando appieno l' obiettivo, far emozionare l' ascoltatore.
Per chi non l' avesse ancora ascoltata, la canzone ricorda Coma Black, contenuta in Holy Wood(In the shadow of the valley of death).
''Heart shaped glasses'' - Melodica, molto melodica e vagamente 80's con chitarre new wave, ed un chorus maledettamente catchy.
''Evidence'' - Rumori e poche note di piano elettrico ci introducono verso un potenziale classico di manson, caratterizzato da un ottima sezione ritmica, e da un lacerante assolo di chitarra.
Anche qui, come nelle altre canzoni ascoltate finora, il cantato di Manson è intenso, e non aggressivo.
''Mutilation is the most sincere form of flattery'' - Uno dei pochi momenti aggressivi dell' album, canzone a metà strada tra Dope Hat(dal primo album, portrait of an american family)
e The Dope Show(il ritornello). Anche qui un assolo di chitarra di Tim Skold impreziosisce la song.

Non avendo ancora ascoltato il cd per intero, si può solo dire che sicuramente ci sono le premesse per un ottimo lavoro.
simulescion3

giovedì, maggio 24, 2007

CINEMA: Il documentario di massa


“La nuova frontiera dell’entertainment"
Da millenni l’uomo cerca di rapportarsi con l’ambiente che lo circonda e che lo ha generato, scrutandolo ed osservandolo da ogni angolo e punto di vista, non sempre per il bene della comune esistenza. Uno degli strumenti utilizzati per l’analisi e la comprensione della natura è stata la ripresa della stessa, che ha permesso alle persone di conoscere le variazioni sul tema e approfondire la propria curiosità in maniera costruttiva e spesso coinvolgente. Il cinema come arte di vita si è avvicinato a tale campo di studio con un genere particolare, il Documentarismo, che negli ultimi anni ha seguito un filone innovativo, frequentemente rivolto ad un target stratificato e con una fruizione di ambito maggiore, dato l’alto tasso di specialisti che lavorano dietro le quinte per realizzarli e i nuovi trovati in fatto di tecnologie. Anni di ricerche, esperimenti e sviluppo ha portato l’umana conoscenza a poter fronteggiare la crescente richiesta del mostrare ad utilizzare il documentario come vero e proprio mezzo d’infotainment, informazione più intrattenimento. Questo ha aperto una reazione a catena, la voglia di conoscere la natura in tutti i suoi molteplici “singolari” aspetti ha reso necessario un lavoro intensivo su questo tipo di audiovisivo che permettesse allo spettatore d’immedesimarsi e vivere l’evento filmico come reale, più del reale. In questo senso si è passati dal più semplice Microcosmos, dei registi-scienziati francesi Nurisdany e Pèrennou (1996), quasi un documento che un documentario, il quale esplora e contempla vita e morte di quegli esseri minuscoli, gli insetti, con una visione poetica, oltre che informativa o divulgativa, fino al recente Profondo Blu, la storia naturale degli oceani raccontata attraverso le immagini incantevoli dei suoi abitanti e della loro vita sottomarina e girato da Alastair Fothergill e Andy Byatt. La ricerca di una forma per narrare le gesta di un mondo naturale che ci appartiene, ma di cui spesso non siamo a conoscenza ha portato i migliori documentaristi a confrontarsi con ogni specie animale, simbolo e definizione dell’ambiente che possiamo trovare a qualunque latitudine terrestre. Esempio l’ampante di questo esplorare è Il popolo migratore, docufilm del 2001 che, per la regia di Jacques Perrin, racconta la più spettacolare delle avventure, attraverso un mondo celeste dominato da correnti d'aria sulle quali venire trasportati, seguendo il mutare delle stagioni per scoprire il nostro pianeta come non l'abbiamo mai immaginato, né visto prima. Solitamente un prodotto destinato al grande schermo vuole avere respiro epico, perciò le grandi coproduzioni internazionali (maggiormente USA, Francia e Italia) si mettono alla prova realizzando opere che suscitino forti emozioni e che diventino anche dei successi al botteghino. L’ultimo realizzato, presentato nel nostro paese con il commento di Fiorello, è l’ultima fatica di Luc Jacquet, che con la sua equipe di cineasti ha impiegato diversi anni per realizzare La marcia dei Pinguini. Nell'oceano, il pinguino imperatore assomiglia più ad un delfino che ad un uccello. Sulla terraferma, trasformatosi in camminatore maldestro, l'uccello si trova ormai alla mercé del minimo ostacolo e cammina d'inverno attraverso centinaia di chilometri alla ricerca di cibo e per la sopravvivenza della propria specie. Il film racconta quest'epopea, che rappresenta un atto d’amore nei confronti dell’uomo verso tale mondo animale, che all’inizio dei tempi ci è appartenuto. Ciò che negli ultimi anni ha evidenziato meglio questo rapporto natura-ambiente-uomo è la rappresentazione di un universo che ha preso possesso delle nostre fantasie e di cui la platea ne pretende, per niente sazia, maggiori cognizioni, sin dall’inizio del creato. Sintesi estrema di questo volere è stata l’uscita nelle sale di Genesis (2004), un documentario girato dagli autori di Microcosmos, Claude Nuridsany e Marie Pérennou, che mescolando humour e serietà, innocenza e saggezza, ha utilizzato il linguaggio evocativo del mito e delle favole per raccontare la nascita dell'Universo e delle stelle, l'inizio infuocato del nostro pianeta e l'apparizione della vita sulla terra, un ambiente che, nonostante sia lacerato dal suo interno, risplende ogni notte per ciascuna delle sue creature. Il documentario divenuto film incarna proprio questa convinzione, rende l’osservazione della natura una storia vera, il racconto senza tempo dove potersi distrarre per ammirare le sue meraviglie e che approfitta del nostra sete di conoscenza per creare un legame emotivo tra l’uomo e tutto ciò con cui egli convive.
SimOne

sabato, maggio 19, 2007

One day at UCLA




ORE 10.00. E’ l’ora del break. Qui al corso di intensive english ognuno esce dalle aule freezer per riequilibrare la propria temperatura corporea. L’aria frizzante di L.A. ti riempie i polmoni, ricordando come a breve tornerai allo smog cittadino. Con il mio roommate bolognese ci dirigiamo verso l’internet point per le ultime news dall’Italia. Mentre ci organizziamo per la serata con gli amici californiani, arriva Vittorio affannato e ci sventola un foglietto sotto il naso. Lo guardiamo senza capire, finché non ci spiega che in palestra si sta allenando Baron Davis, a cui ha appena strappato una combo: autografo+foto. Con uno sguardo d’intesa ci precipitiamo verso il Wooden Center e passando accanto all’orso (Bruin) simbolo del college, notiamo l’assenza della nostra euforia nei passanti. Siamo alla Ucla e qui Baron è di casa. Entriamo nella Gym e lui e lì, come uno qualunque a fare due tiri (con una media impressionante, tra l’altro). Ci avviciniamo speranzosi allungandogli un quaderno che la star di Auckland firma distrattamente, mentre parla al cellulare. Ci guarda sorridente e mette fine ai nostri sogni d‘esser con lui immortalati: “No pictures, I’m working”. Senza replicare, allora ci allontaniamo, soddisfattissimi comunque.

ORE 16.00. Le lezioni sono terminate, usciamo di nuovo tutti, disordinatamente, ognuno con i propri pensieri in testa, io con la preziosa reliquia al sicuro in tasca. Insieme alle italianissime compagne di corso ci ritroviamo davanti alla Ballroom come sempre, indecisi sul programma pomeridiano e sulle possibilità che la città ci offre. Tirando a sorte si opta per visitare Downtown, il centro metropolitano, dove sorge maestosa la casa dei Lakers-Clippers. Così, zaino in spalla, torniamo verso i dormitori, passando accanto al Pauley Pavillion, che è il palazzetto dove gioca la squadra universitaria di basket. Mentre ognuno si prepara ecco che il compagno di stanza di Vittorio, l’ennesimo abitante del Belpaese come noi di stanza alla Ucla, ci ferma ponendoci un quesito: chi è l’uomo che oggi ha fotografato tra il Sunset e l’Hollywood boulevard, solo perché bersaglio di altrettanti flash? Guardo l’immagine digitale e pieno d’invidia lo riguardo dicendogli: Magic Johnson!!! L’attimo di stanchezza è passato, siamo pronti a correre di nuovo, ovunque. Facciamo per alzarci, lui ci blocca: “I’m sorry, era più di quattro ore fa”. Con la delusione dipinta in viso avvertiamo gli altri guys della mancata occasione, cercando esageratamente di farcene una ragione.

ORE 20.00. Arriviamo in serata di fronte alla mecca del derby losangelino, il secondo tempio cestistico per eccellenza dopo il Madison Square Garden di NY. Solo in quel momento, però, di fronte alla magnificenza molto neoarchitettonica che ci sovrasta, ci rendiamo conto che è domenica e lo Staples Center è chiuso. Demoralizzati dalla sfortuna ci rimane solo una riflessione spontanea: come sia facile qui negli USA incontrare una stella dello sport, se non proprio di persona almeno nella sua immagine bronzea. Accanto allo Staples, infatti, l’ex #34 gialloviola, il grande Magic, c’è ogni giorno di ogni settimana dell’anno.
SimOne