giovedì, settembre 28, 2006

Qualcosa è cambiato?! - parte 2°


(eccomi durante l'intervista al premiato regista di Un Amore, Gianluca Maria Tavarelli)


Un gruppo eterogeneo di aspiranti critici cinematografici, diversi per età, cultura, gusti ed esperienze si è messo con impegno per organizzare in questo mese di settembre una rassegna cinematografica che riflette sul cinema del cambiamento.
“Qualcosa è cambiato?!” è il titolo di questo minifestival organizzato dai Critici Selvaggi in programma dal 21 al 1 di ottobre presso il Circolo degli Artisti (via Casilina Vecchia, 42 tel. 06.70305684), inaugurato la scorsa settimana dagli interventi del regista (presente anche all’ultima Mostra di Venezia) Gianluca Maria Tavarelli e dai fondatori della scuola di Cinema Sentieri Selvaggi di Roma, prima della proiezione di Un Amore dello stesso Tavarelli e del corto di Chris Marker, La Jetee.
Perchè “Qualcosa è cambiato”? Perchè qualcosa prima o poi cambia sempre e comunque; perché tutto attorno a noi - e in noi - è un work in progress continuo. Perché da tutti i vari punti di vista possibili e immaginabili (e potrebbero essere infiniti, provateci) il cambiamento è un'urgenza che tocca da vicino ognuno di noi, chi più chi meno, indipendentemente da età, esperienza di vita, pensiero politico, situazione socio-economica, livello culturale e così via...
Il cambiamento e lo scorrere inarrestabile del tempo unito alla continua ed estenuante ricerca (intesa a 360°) è un'urgenza comune e sentita da molti. Con le sue mille e più sfaccettature e sfumature, il cambiamento ci attraversa - e ci cambia appunto. A volte neanche ce ne accorgiamo, a volte invece ne siamo travolti nostro malgrado; altre ancora lo aspettiamo con ansia ma non arriva; altre, infine, si rivela essere solo un'illusione momentanea. E poi può accadere che un gruppo di sconosciuti, divisi da mille barriere (età, pensiero politico, cultura, gusti ed esperienze), si incontrino - o scontrino, dipende sempre dai punti di vista - per caso o per fatato destino, senza essersi scelti o cercati ma essendosi semplicemente trovati. Indifferenti e sospettosi l'uno verso l'altro , poi col tempo - a dimostrazione che è proprio il tempo a muovere i fili di ogni mutamento - l'avvicinamento.
Il programma che proseguirà nelle serate del 29 e 30 Settembre per terminare con la serata di Domenica 1 Ottobre, riserva comunque piacevoli sorprese con una non comune scelta di opere non facilmente reperibili su grande schermo, insomma un’opportunità per chi vuole riscoprire o vedere per la prima volta film che da tempo non si trovano più al cinema o non vi sono mai passati.

SimOne

sabato, settembre 23, 2006

BASKET: In principio fu il jump shot


Il povero ragazzo non sapeva più che pesci prendere.
Nonostante avesse una visione di gioco fuori dal comune e la capacità di eseguire splendidi passaggi, quel maledetto difetto non riusciva ad eliminarlo, e c'è da dire che si allenava per farlo.
Anche quando entrò nella lega alcuni continuavano a chiamarlo Ason, invece che Jason, e fu soltanto anni dopo che uno dei più grandi playmaker nella storia dell' NBA riuscì a riappropriarsi della J... la J di Jump Shot, il tiro in sospensione.
Jason Kidd è soltanto il caso più eclatante di come la mancanza di un fondamentale possa perseguitarti nonostante magari tu sappia fare tutto il resto (punti rimbalzi assist difesa), così come Kidd sa fare ( l'aneddoto è ripreso dalla canuscenza cestistica di Federico Buffa, guru del basket). Il tiro in sospensione signori, è la sintesi suprema di come una persona sia predisposta al basket; vale a dire la sua inclinazione, il suo modo di viverlo e il suo modo di concepirlo.
Se sono perfetto stilisticamente e dalla dinamica infallibile (Ray Allen) vuol dire che la buona esecuzione per me vuol dire successo, e mi adopero per questo; se invece mi invento un mio modo di eseguire perchè convinto che segnerò a raffica (Reggie Miller), quasi me ne frego dello stile..a me interessa solo segnare.
Se infine riesco ad unire la meccanica omicida con lo stile sontuoso allora mi chiamo Michael Jordan o Kobe Bryant.
That 's it ladies and gentlemen, niente di più e niente di meno... il tiro in sospensione una volta era come il rimbalzo: dominava la partita. Ecco perchè chi ormai è dotato del classico middle range, quindi dai 4 e 5 metri, può permettersi in talune partite ( se è la sua arma più forte..tipo Rip Hamilton ), o in tutte le partite ( Kobe Bryant ) di salire in cattedra e dare la buonanotte a tutti, qualora si parli di ripetute prove di efficacia, non di sporadiche esibizioni balistiche.
In alcune partite può capitare di vedere anche i più collaudati sistemi di gioco vacillare difronte ad una difesa aggressiva, e mentre osserviamo rapiti il dramma di giocatori impantanati in una zonaccia 3-2 con magari un lungo atipico in punta a rompere i maroni ai tiratori, eccolo li a volte, spuntare come per magia l'uomo che rispetto agli altri non parla solo la lingua del tiro da tre o del tiro nel traffico, ma sa dire anche " jump shot "!! Inutile dire che l'allenatore sbava letteralmente nel vedere il Nostro che infila un jump shot dopo un altro, e proprio non c'è nessun aggiustamento difensivo che tenga, che lo si lasci tirare o ci si infili nei suoi pantaloncini con una box and one, quando hai la terza dimensione del middle range sei praticamente imbattibile...e se hai dalla tua anche il dono del "on fire", cioè il giocatore da striscia, ecco là che l'allenatore stappa lo spumante in panchina, scambiando un tuo compagno seduto a giocare a briscola per una playmate di Hugh Heffner. Avevo un allenatore una volta che amava ripetere " ragazzi il basket è semplice, siete voi che lo complicate ", il modo in cui lo diceva non era esattamente questo..c'era qualche "porca troia " di mezzo, ma il succo resta: il basket è semplice.
Ed è più semplice imparare a tirare dai 4 metri che dai 6,25 o dai 7,15...questo poco ma sicuro!
Così se avrete mai una J nel vostro nome state sicuri che la pronunceranno sempre.

Scion

mercoledì, settembre 20, 2006

CINEMA: La Hollywood del mito

TRA STORIA E ATTUALITA’...

Finché non gli arrivi di fronte, non ti rendi bene conto della sua importanza. La scritta giganteggia sulla collina, affacciandosi maestosa sulla città degli angeli. Hollywood rappresenta molto più di quello che rivela a prima vista: da decenni ormai cela con la sua insegna protettiva, ogni traversia affrontata dalla fabbrica dei sogni. I film, infatti, sono ciò che ha permesso a Los Angeles di venire alla luce. Interi capannoni costruiti nel deserto della California, divenuti, per il loro appeal economico, prima industrie, poi quei grandi studios destinati a cambiare il volto della realtà su pellicola. Così quando ad est della città rimani ad ammirare ciascuna delle nove enormi lettere, viene naturale riflettere sul cinema come pura forma d’arte, la settima.
Tale definizione non potrebbe esser più appropriata se pensiamo a come appare Los Angeles oggi. Una metropoli priva di alcun fascino urbano ed architettonico, che emana una ricchezza che non gli appartiene più, il riflesso aureo della stagione dei grandi divi. Dal monte Olimpo, osservandola bene si capisce che lo spropositato benessere deriva essenzialmente dal turismo, attirato da entusiasmi da fiction e dalle magnifiche spiagge oceaniche, ossia tutto ciò che L.A. può offrire. Il glamour, il kitsch e il barocco fanno parte di una superficie patinata, che tenta di nascondere il poco che vi rimane sotto. Perché un poco c’è, a partire dai lunghi e famosi vialoni (il Sunset e il Santa Monica boulevard), agli effervescenti quartieri da soap (Bel Air, Beverly Hills), per arrivare al prestigioso college universitario (Ucla). Ma poi? Il discorso, dunque, torna sempre all’origine ed è qui che troviamo il merito: dal niente si è arrivati a questo, dal deserto si è costruita per necessità l’immagine esatto contrario di ciò da cui essa dipende, il cinema appunto. Dove esiste veramente quella magia che ciascuno si aspetta, che è la possibilità di incontrare un attore mentre fai shopping od assistere alla celebrazione del settantenario del più amato personaggio Disney, mentre cammini lungo la Walk of Fame. E per chi come me è un amante del grande schermo, va da se che il cuore pulsante del cinema si trova proprio qui, a partire dall’incrocio tra LaBrea e l’Hollywood boulevard.
Per rendere accessibili ai terrestri gli immensi set che circondano Los Angeles, gli studios da qualche anno promuovono visite guidate al loro interno, cercando così di placare l’avida sete dei curiosi turisti. Nonostante i prezzi siano appropriatamente alle stelle, il flusso di pellegrinaggio è continuo. Visitare la Warner Brothers, la Paramount o la Columbia, però, non è come andare al parco giochi, come peraltro propone la Universal. Infatti il giro, della durata di un paio d’ore, può risultare monotono e talvolta noioso, specie se le guide all’interno del parco, si esaltano per un nonnulla (vedi “cicca di sigaretta per terra fumata da Humphrey Bogart”) o con tutta la naturalezza del mondo ti dicono, indicando un complesso di edifici, che la Gotham City di Batman è la stessa Chicago del telefilm E.R. Ma questo fa parte della messinscena di celluloide, perché come capita sempre più spesso anche da noi, i serial tv ormai stanno prendendo il sopravvento sulla produzione filmica. L’altro aspetto, che però ai più sfugge, è la costosa impresa che equivale a girare un film, di cui i set non sono altro che le ceneri primordiali, i cantieri dove l’arte prende vita. A questo punto della riflessione, qualcuno potrà sentirsi scoraggiato, decidere che poi il cinema in Italia non è poi così messo male, sentir vacillare le proprie convinzioni in materia.
Già, qualcuno, ma non la maggior parte delle persone, perché ci sono ancora molti che, nonostante sappiano quali siano le regole del gioco, hanno (giustamente) voglia di lasciarsi trasportare dalla fantasia, sentirsi liberi e felici dietro lo schermo.
E’ proprio per questo non si interromperà mai il flusso dei visitatori laggiù nel deserto e per questo motivo non si esauriranno mai le file davanti ai botteghini. Perciò se chiedessimo a una persona qualunque quale sia il suo tempio cinematografico, non dovremmo stupirci se la risposta fosse la solita, se senza pensarci ci dicesse Hollywood: è solo lì che la realtà incontra l’immaginazione.

SimOne

sabato, settembre 16, 2006

Ragione causa dell'evoluzionismo

....digressioni...

“Io ho bisogno di credere che qualcosa di
straordinario sia possibile...!”
(A beautiful mind, 2001)


Origine dell'universo: evento postulato dalla teoria cosmologica standard a cui si fa risalire la comparsa della materia e dell’energia esistente. Tale energia è evoluzione, continuo ed indissolubile cambiamento. Porre a terra i limiti dell’immaginazione significa esplorare le teorie della secolare conoscenza umana.

Kant elaborò tale chiave di volta nella sua Critica della ragion pura (1781). In quest’opera egli esaminò i fondamenti e i limiti della conoscenza umana per delineare un approccio epistemologico capace di legittimare razionalmente le conquiste della scienza moderna. In modo simile ad alcuni filosofi precedenti, Kant differenziò le modalità del pensiero in giudizi analitici e giudizi sintetici. In essa Kant afferma che è possibile formulare giudizi sintetici a priori (Ogni cambiamento ha una causa), ossia giudizi fecondi dal punto di vista conoscitivo, ma nel contempo universali e necessari. Questa posizione filosofica è comunemente nota con il nome di “criticismo trascendentale”. Descrivendo il modo in cui questo tipo di giudizio è possibile, Kant distinse tra i "fenomeni"(dal greco phainómenon, ciò che appare), vale a dire gli oggetti per noi, in quanto sono conosciuti dall'uomo e si collocano nel mondo dell'esperienza sensibile, e le cose in sé, cioè gli oggetti considerati a prescindere dalle modalità in cui appaiono e sono visti dal soggetto conoscente.

L’approccio a queste considerazioni non può che rivelarsi logico e necessario in rapporto al pensiero che nella ragione dei lumi, il raziocinio dell’essere pensante (il simbionte cognitivo) assume i contorni di un velo da superare e ammettere.

simulescion3

giovedì, settembre 14, 2006

MUSICA: Gli Aerosmith di nuovo on stage


Quando Joey Kramer, il batterista appena aggiunto al gruppo propose di diventare un “mito dell’eros” furono in pochi quelli a dargli retta. Era il 1970 a Boston, l’anno in cui, dalle ceneri della Jam Band e dei Chain Reaction, nacquero gli AEROSMITH. Steven Tyler, Joe Perry e soci vantano una carriera lunghissima e soprattutto l'ingresso nella Rock and Roll Hall of Fame. Prima del loro esordio nel 1973 con l’album omonimo hanno consolidato il gruppo suonando nei locali e dormendo tutti nella stessa stanza di un hotel. Hanno raggiunto lo status di greatest rock band con brani che uniscono Rhythm and Blues con Hard Rock d’autore. Dopo la malattia di Steven Tyler, stavolta ad avere a che fare con la cattiva sorte è Tom Hamilton, il bassista della formazione, a cui hanno diagnosticato un tumore alla gola. Hamilton ha già completato il primo ciclo di cure e starebbe relativamente bene ma il suo posto nella line-up, per la parte iniziale del tour congiunto con i Motley Crue, sarà preso da David Hull, amico di Joe Perry. Il tour del nordamerica (come sempre, quando mai in Europa?? Tanto i giapponesi di rock non capiscono nulla…) “Route of all evil” degli Aerosmith inizierà dal New Jersey il 14 settembre. Contemporaneamente, e in attesa del nuovo album, gli Aerosmith pubblicheranno un nuovo best of il prossimo 16 ottobre, che conterrà due brani inediti, intitolati “Devil's Got A New Disguise” (il titolo dello stesso best) e “Sedona Sunrise”, versione rimasterizzata di una demo registrata ai tempi di Pump (1989).

«Il nostro segreto? Fottercene di tutto e di tutti...! Delle mode, dei trend, e delle band messe insieme da manager e case discografiche. Ma chi se ne frega! Tanto quando loro saranno alla frutta, noi saremo ancora in giro per il mondo a riempire gli stadi!»
Sappiamo bene quant'è vero. AlwaysAerosmith

SimOne

domenica, settembre 10, 2006

Venezia .63

Leone d'Oro al cinese Jia Zhang-Ke con il suo "Still Life"

Al termine della 63esima edizione della Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica di Venezia, ecco l'elenco completo dei premi assegnati:

LEONE D'ORO Jia Zhang-ke per Still Life
LEONE D'ARGENTO PER LA MIGLIOR REGIA Alain Resnais per Private Fears in Public Places
LEONE D'ARGENTO SPECIALE COME RIVELAZIONE DEL FESTIVAL Emanuele Crialese per Nuovomondo
PREMIO SPECIALE DELLA GIURIA Mahamat-Saleh Haroun per Dry Season
COPPA VOLPI PER LA MIGLIORE INTERPRETAZIONE MASCHILE Ben Affleck per Hollywoodland
COPPA VOLPI PER LA MIGLIORE INTERPRETAZIONE FEMMINILE Helen Mirren per The Queen
PREMIO MARCELLO MASTROIANNI A UN GIOVANE ATTORE O ATTRICE EMERGENTE Isild Le Besco per The Untouchable
OSELLA PER LA MIGLIORE SCENEGGIATURA Peter Morgan per The Queen
OSELLA PER IL MIGLIOR CONTRIBUTO TECNICO Emmanuel Lubezki per I figli degli uomini("Per la miglior fotografia")
PREMIO LUIGI DE LAURENTIIS PER UN’OPERA PRIMA Jessica Woodworth e Peter Brosens per Khadak
PREMIO ORIZZONTI Liu Jie per Mabei shang de fating
PREMIO ORIZZONTI DOC Spike Lee per When the Leeves Broke. A Requiem in Four Acts
LEONE D'ORO ALLA CARRIERA David Lynch

simulescion3

venerdì, settembre 08, 2006

CINEMA: Slevin - Patto criminale


Non sempre puntare sul cavallo vincente porta bene. Specialmente se il cavallo in questione si chiama Slevin, come il Josh Hartnett protagonista del film diretto dal sottovalutato regista scozzese Paul McGuigan. E il prologo di Lucky number Slevin affina con denso rigore questa regola non scritta. Patto Criminale, il sottotitolo italiano, è un perfetto meccanismo ad incastri, dove il noir riscopre il pulp e fondendosi assieme generano un gangster movie riveduto e corretto alla maniera moderna. Lontano dai soliti appellativi tarantiniani, etichette appiccicate ad un genere che partendo dal capostipite (Quentin) ha dimostrato di nutrire una notevole schiera di autori, l’opera di McGuigan appare lo specchio di un genere narrativo che fa della vendetta la sua portata principale.
L’uomo sbagliato al momento sbagliato è solo un pretesto per introdurre lo spettatore in un vortice di equivoci e situazioni al limite del farsesco che seducono e ammaliano, attraverso il forte charme emanato dai grandi interpreti della pellicola. Quelli sì, ognuno al proprio posto, dal sicario Willis, al boss Freeman, dal rabbino Kingsley alla coroner Liu, fino allo sventurato protagonista, un apprezzabile Hartnett. Il film ha due anime, il cuore e il cervello, separate nettamente come lo scorrer del racconto, che prima distoglie l’attenzione e poi affonda la sua lama noir nella morbosa curiosità di chi osserva stupito la mossa "Kansas City": ti volti da una parte, mentre ti fregano dall’altra. Ovviamente tutto ruota attorno ad un plot estremamente coinvolgente e quantomeno grottesco, che partendo da un campo lunghissimo di un comune aeroporto a stelle e strisce prosegue con lo scambio d’identità di un ragazzo, Slevin appunto, che vedrà la sua vita deragliare verso circostanze composte da momenti drammatici ed altri prettamente ironici e tipici del pulp d’autore.
Il giovane talento Jason Smilovic, autore di alcune apprezzate serie tv made in USA, firma la sceneggiatura di questo thriller originale e dal colpo di scena in agguato, il quale punta molto sul magnetismo dei dialoghi serrati. Flashback ed eventi in tempo reale si contrappongono con sorprendente efficacia, ogni piccolo dettaglio filmato è un elemento chiave servito allo spettatore col gusto del poliziesco anni cinquanta a cui si ispira dichiaratamente: quell’Intrigo internazionale girato da Hitchcock nel 1959. Arrivato a New York, Slevin, si trova apparentemente in mezzo ad una guerra fra bande rivali, “gli abbronzati” e “i circoncisi” (come afferma uno dei loschi personaggi invischiati), e non può far altro che cercare una via d’uscita a questa situazione. Patto criminale avvince sin dall’inizio e non delude mai, un film che uscito in sordina, si è poi rivelato una delle opere più solide del panorama noir e a cui McGuigan, autore anche del magnifico Gangster #1, ha saputo restituire brillantezza e dotare di una pregevole manifattura, specie nel convulso e sanguinoso finale.
Slevin prende spunto dalla nuova moda della vendette all’orientale, che negli ultimi tempi ha dilagato grazie a talenti come Park Chan-Wook, conservando però la spettacolarità del cinema americano più raffinato, dunque privo delle sparatorie e delle altre frivolezze tanto care al genere gangster. Attenzione ai particolari e precisione nella narrazione sono il cavallo di battaglia dell’intera vicenda, un cavallo su cui stavolta è facile puntare una volta usciti dalla sala.

“Non sono Nick Fisher…sono solo uno capitato nel posto sbagliato al momento sbagliatissimo”.

SimOne

martedì, settembre 05, 2006

Qualcosa è cambiato?!


Rassegna Cinematografica (Imperdibile!!...data l'organizzazione del sottoscritto Sim1)

21 settembre - 01 ottobre 2006
-- CIRCOLO DEGLI ARTISTI -- ---
[via Casilina Vecchia, 42 - Roma]


PROGRAMMA:

GIOVEDI’ 21/9

Ore 20.30: inaugurazione della rassegna con introduzione di Federico Chiacchieri (Direttore Sentieri Selvaggi) e intervento del regista Gianluca Maria Tavarelli - gli interventi saranno preceduti da un breve estratto da Un mercoledì da leoni di J. Milius (1978)
Ore 21.00: Un Amore di G. M. Tavarelli (1998) 100’
Ore 23.00: per la sezione CORTI La Jetée di C. Marker (1961) 28’


VENERDI 22/09

Ore 20.30: Velvet Goldmine di T. Haynes (1998) 124’
Ore 23.00: Fucking Amal di L. Moodysson (1998) 89’


SABATO 23/09

Ore 20.30: L’insolito caso di Monsieur Hire di P. Leconte (1989) 80’
Ore 23.00: per la sezione CORTI 11’09’’01(Segmento “USA”) di S. Penn (2002) 11’ - tratto da 11’09’’01 di AA. VV.
Ore 23.15: La doppia vita di Veronica di K. Kieslowsky (1991) 98’


VENERDI 29/09

Ore 20.30: introduzione di Demetrio Salvi (Co-Fondatore Sentieri Selvaggi) e intervento del regista Matteo Garrone e dello sceneggiatore Massimo Gaudioso
Ore 21.00: Primo amore di M. Garrone (2003) 100’
Ore 23.00: per la sezione CORTI Vincent (1982) 5’ - proiettato in lingua originale - e Frankenweenie (1984) 25’ di T. Burton - FILM D’ANIMAZIONE; È il grande cocomero, Charlie Brown! di B. Melendez (1966) 25’ - FILM D’ANIMAZIONE


SABATO 30/09

Ore 20.30: Il mago di Oz di V. Fleming (1939) 101’ - versione restaurata e proiettata in lingua originale con sottotitoli in italiano - il film sarà preceduto da un estratto da Cuore Selvaggio di D. Lynch (1989)
Ore 22.30: Arizona Dream di E. Kusturica (1993) 119’


DOMENICA 01/10

Ore 20.30: La cosa di J. Carpenter (1982) 109’
Ore 22.30: Il pianeta selvaggio di R. Laloux (1973) 72’ - FILM D’ANIMAZIONE - il film sarà preceduto da una sequenza animata tratta da Kill Bill Vol. I di Q. Tarantino (2003)

INGRESSO GRATUITO A SOTTOSCRIZIONE...
Per maggiori info http://www.cinemorfosi.splinder.com/

simulescion3

domenica, settembre 03, 2006

MUSICA: John Lennon dentro e oltre i Beatles

I'll get you anything my friend, if it makes you feel alright,
'cause I don't care too much for money, money can't buy me love.
(Can't buy me love, 1964)

I Beatles rappresentano con tutta probabilità uno tra i fenomeni musicali e socio-mediatici più evidenti del secolo scorso. Dal punto di vista musicale lo dimostra senz’altro la cifra di dischi venduta dal quartetto, circa un miliardo…!!, il numero di singoli entrati al primo posto in classifica, lo straordinario impatto delle loro melodie sulle influenze dei musicisti degli anni a venire, ma non solo…
Chiunque, infatti, seppure digiuno di musica, è in grado di ricordare almeno una decina di canzoni dei Beatles, e a trentasei anni dallo scioglimento del gruppo, una loro antologia vende ancora milioni di copie. Hanno rappresentato anche un fenomeno di massa mai più registrato. La Beatlemania, appunto, nasce in considerazione di quel delirio di folla urlante che accompagnava le loro esibizioni, che li attendeva all’aeroporto in occasione delle date mondiali, che faceva ore di fila davanti al negozio in attesa di comprare il loro nuovo disco .., cose che adesso non sono neppure lontanamente immaginabili anche per la più grande rock band del momento. Ogni loro affermazione appena fuori dalle righe riempiva pagine di giornali, un certo taglio di capelli o un determinato tipo di scarpe venivano definiti “alla Beatles”. Insomma, se si pensa ai “mitici” anni 60, sicuramente i Fab Four sono tra le prime cose che vengono in mente. Senza contare che ancora oggi una loro registrazione perduta e miracolosamente recuperata, oppure qualche pagina del diario che qualcuno di loro annotava saltata fuori per caso scatena l’attenzione dei giornali, e, come ovvia conseguenza, dei lettori. Se dal punto di vista musicale, pur essendo stato fondamentale George Harrison e per certi versi necessario Ringo Starr, si può affermare che l’anima del gruppo siano stati congiuntamente Lennon e McCartney, sotto altri aspetti la figura di John Lennon è stata cruciale.
Lennon caratterizzava l’immagine del gruppo anche per tutto ciò che andava al di là dell’ambito meramente musicale. Dotato di una personalità enigmatica, accentuata da un’infanzia non particolarmente serena, e al tempo stesso di una notevole sensibilità, riusciva ad essere unico in ogni sua manifestazione.
Buffo e spesso sarcastico ai limiti dell’irriverenza, basti pensare a molte delle interviste rilasciate anche all’indomani del titolo onorifico che il gruppo ricevette dalla Regina d’Inghilterra (titolo a cui, tra l’altro, Lennon rinunciò qualche anno dopo), era anche autore dei testi più interessanti della loro discografia.
Le sue dichiarazioni spesso lasciavano interdetti i giornalisti, ma a volte i suoi stessi fan. Memorabile la reazione del pubblico ad una delle sue frasi più celebri, quella che affermava che i Beatles erano più famosi di Gesù Cristo. Il Ku Klux Klan minacciò di morte i quattro musicisti, che raccontarono in seguito di avere avuto timore ogni volta che salivano su un palco per esibirsi (per loro stessa ammissione uno tra i tanti motivi per cui smisero di li a poco di fare concerti).Fu effettuata una campagna di boicottaggio della loro musica da parte di alcuni fondamentalisti cristiani e alcuni gruppi di fan bruciarono i loro dischi in strada.La sua spiccata personalità artistica era riscontrabile anche nei mutamenti di indirizzo che la band subì nel corso degli anni, e di cui era più manifesto esponente di quanto non lo fosse il suo alter ego compositivo, Paul. Non è infatti un caso che molti degli esperimenti musicali che poi portarono i Beatles ad una nuova dimensione stilistica, quella della maturità, siano stati dovuti inizialmente a lui. Ma la sua ecletticità nascondeva anche dei lati oscuri. Racconta Paul McCartney che quando, verso la metà degli anni sessanta, si cominciò a parlare degli effetti dell’LSD sulle percezioni sensoriali, Lennon fu il più eccitato dei quattro all’idea di provarli. La stessa decisione di smettere di fare concerti già nel ’66 è da attribuirsi principalmente alle insistenze di Lennon, anche se fortemente appoggiato da Gorge Harrison. E poi, naturalmente, la parola fine sui Beatles. Yoko Ono infatti, seconda moglie di Lennon, è tra le ragioni principali della rottura del gruppo. Ricordano i restanti membri che John non potesse fare a meno della presenza di Yoko, motivo per il quale la stessa partecipava alle prove del gruppo all’interno della sala prove, cosa che non era mai stata permessa a nessuno, e che creava, come gli stessi raccontano, forte attrito tra loro. Almeno un anno prima che McCartney annunciasse lo scioglimento del gruppo, Lennon era entrato in un’ulteriore nuova dimensione, quella che lo portò a rappresentare il simbolo del pacifismo negli anni bui della guerra in Vietnam, e che contribuì, insieme con la tragica e prematura scomparsa, a farne, più di Paul, George e Ringo, un mito oltre il mito.

Saverio (simulescion3)

venerdì, settembre 01, 2006

BASKET: Fine di una credenza


Usa Grecia 95-101
Stati Uniti: la patria del basket.
Fino a dieci anni fa bastava questa definizione per far venire la pelle d'oca agli appassionati seguita da un inspiegabile timore reverenziale, causato con tutta probabilità dalla recente apparizione sulla terra di quegli alieni che componevano il dream team del 92. Ora, 14 anni dopo quell'incredibile Olimpiade, gli Stati Uniti non sanno più vincere. E non vincono da 6 anni ormai. Gli americani sanno benissimo perché perdono, ma da orgogliosi quali sono, non lo ammetteranno mai...e così continueranno a perdere. Perché se coach Krzyzewski ammette che “in campo internazionale abbiamo ancora molto da imparare” e il suo vice D'Antoni non può che assentire, è anche vero che dalle labbra di LeBron James (Lauro..si pronuncia LeBron, non LiBron...e Pau Gasol è spagnolo, non inglese...e Wizards non vuol dire Ribelli..) o da quelle di Dwayne Wade o Carmelo Anthony, cioè i 3 capitani, non è uscita nemmeno mezza parola sull'argomento. Anzi. Anthony ha addirittura ammesso di essere shocked, ma anche che questa “non è la fine del mondo”, che di per se è giustissimo, ma tra le righe si legge tranquillamente “siamo sempre noi i migliori”. E questo invece è sbagliato.Sono si i migliori...ma in America.
Nelle competizioni internazionali contro squadre Fiba, sono forti, non i migliori. Il difetto è la mentalità (poichè chiariamoci: se gli americani fossero meno supponenti e preparassero veramente bene le competizioni internazionali non ce ne sarebbe per nessuno), anche perchè non c'è nessun Jordan nella selezione (checchè se ne dica di Wade…per favore.) e l'unico che poteva da solo risolvere la situazione è rimasto a casa....non faccio nomi. Sarebbe paradossalmente fin troppo facile analizzare gli aspetti tecnici di cui deficitano gli americani, così come è ancora paradossale vedere uno con i mezzi fisici di James o Wade non riuscire a fermare nemmeno con lo sgambetto quei fulmini di velocità dei greci... le basi del basket: allarghi le gambe, abbassi il baricentro, mano sulla palla e scivolamento laterale.Ecco perché persino il Portorico ha segnato 100 punti a questa nazionale!Eppure in NBA gente che difende c'è eccome, solo che essendo perlopiù scarsa in altri ambiti non viene convocata…e intanto la nazionale non è più sul trono del mondo da anni.Secondo chi scrive la via da seguire è una soltanto: convocare tra i migliori coloro che hanno più attitudine per il gioco puro, e più spirito di abnegazione (perchè caro Wade, lo spavaldo lo puoi fare solo quando vinci..) e torneranno a vincere tranquillamente.Per finire ho un paio di sassolini da togliermi dalle scarpe (tranquillo Lauro ne ho anche 4 you):
1- Qualcuno ha spiegato a James che per essere duri non occorre fare soltanto le facce brutte?
2- Ma James non era il profeta, Dio sceso in terra, l'uomo che non si può fermare etc?..mah.
3- Allora è vero che Wade ha comprato i giornalisti per scrivere che il suo tiro dalla media era diventato automatico..
4- Bonamico, non stiamo all'osteria con un grappino in mano...sei sulla Rai, regolati con le scempiaggini.
5- Lauro..Lauro..che dire ormai ? tutto è già stato scritto, tutto è già stato detto..comunque è scevro di ogni dubbio che la Rai se ne freghi della promozione del basket..altrimenti avremmo il buon Bagatta!
Cari lettori scusate l'improfessionalità di questo articolo, ma non avrei mai potuto esprimere degnamente ciò che mi tengo dentro dall'inizio del mondiale senza usare questi toni un po’...coloriti.
Dalla prossima torno nei ranghi.

Scion